3 – Soffrire, nuova vita, legami, pregare …
Soffrire in unione con il Signore
In tutto il mio ministero mi sono concentrato su Gesù: il suo messaggio, gli eventi della sua vita, la sua relazione con il mondo. Ora più che mai mi concentro sulla sua croce, la sua sofferenza, che non era solo reale, ma anche redentrice e generatrice di vita.
Gesù era umano. Egli sentiva male come noi, e in vari modi provò dolore e sofferenza molto più profondamente di quanto noi potremmo sapere. Eppure, a fronte di tutto ciò, egli trasformò la sofferenza umana in qualcosa di più grande: la capacità di camminare con gli afflitti e di svuotare sé stesso, cosicché il Padre suo amoroso poté lavorare più pienamente attraverso di lui.
Se guardiamo la croce e ricordiamo i modi precisi con i quali la gente condivide il suo mistero, ci sono molte prospettive da considerare. Ne evidenzierò solo una: il mistero essenziale della croce è quello che fa sorgere una sorta di solitudine, un’incapacità di vedere chiaramente come le cose si svolgono, un’incapacità di vedere che, in ultima analisi, tutte le cose operano per il nostro bene e che noi, in verità, non siamo soli.
Questo senso di essere abbandonati, questa estrema prova di solitudine, è evidente nel pianto di Gesù: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Se il Signore ha provato dolore e sofferenza, possiamo noi, come suoi discepoli, aspettarci qualche cosa di meno? No. Come Gesù, anche noi dobbiamo fare esperienza di dolore. C’è tuttavia una differenza fondamentale fra il nostro dolore come discepoli e quello provato da coloro che discepoli del Signore non lo sono. La differenza deriva dal fatto che, come discepoli, noi soffriamo in comunione con il Signore. E’ questo che fa tutta la differenza nel mondo! Ciononostante, perfino questa comunione non spegne interamente la solitudine, il senso di abbandono, come non lo fece per Gesù. […] E’ precisamente nel distacco, nell’entrare in completa comunione con Dio, nel lasciare che egli subentri in noi, che noi scopriamo il nostro vero essere. E’ nell’atto dell’abbandono che realizziamo la redenzione, che troviamo vita, pace e gioia nel mezzo della sofferenza fisica, emotiva e spirituale.
Nuova vita
Dopo gli eventi di profonda emozione degli anni precedenti, che tanto hanno cambiato la mia vita, cominciai il 1995 come un uomo liberato. Un grande peso era stato scrollato dalle mie spalle e mi sentivo più libero che mai. Una parte di me voleva scrivere del periodo della falsa accusa, ma dopo molto pregare decisi semplicemente di andare avanti diritto con la mia vita. La grazia di Dio mi aveva aiutato sia a superare quel difficile periodo sia ad approfondire la mia comprensione di ciò che significa perdonare perfino quelli che ci fanno più male. Durante quei mesi svuotai me stesso molto di più che in passato, cosicché Dio potesse subentrare. Ne risultò che la mia riconciliazione con Steven Cook mi riempì di nuova vita e la sua richiesta di condividere la nostra storia con il mondo ne era significativa prova. Era tempo di cogliere tutto ciò che avevo imparato dall’esperienza e continuare il mio ministero con rinnovata energia e fiducia.
Per la prima volta nel corso di quasi un anno potei riprendere certi progetti che avevo rinviato od annullato. Nel messo dell’entusiasmo che provavo nella ripresa, dovevo prepararmi per un fitto programma nei mesi futuri.
[…] Il momento più importante di questo periodo di viaggi si ebbe a marzo, quando guidai un delegato di cattolici ed ebrei di Chicago in Israele, il mio primo viaggio in Terra Santa. Celebravamo assieme più di venticinque anni di dialogo fra la comunità cattolica e quella ebraica di Chicago. […]
Poiché questo viaggio in Terra Santa era stato così intenso, decisi che un giorno sarei ritornato come pellegrino, in forma privata. A causa delle molte comparse in pubblico, sempre sotto gli occhi dei media, non avevo avuto l’opportunità di trascorrere molto tempo nei luoghi dove Gesù è vissuto ed ha esercitato il suo ministero. Decisi allora che sarei ritornato. Avevo ogni intenzione di farlo, ma ora ciò non succederà più; gusto i ricordi e le sensazioni del poco che vidi dei luoghi dove Gesù visse, esercitò il suo ministero e morì. Ho una migliore comprensione delle Scritture e delle immagini che vi ricorrono.
Ritornai da Israele, mi preparai per la Pasqua.
Sembrava così appropriato celebrare il mistero della morte e risurrezione di Gesù in questo momento della mia vita. Anch’io ero risorto: dalla profondità di una grave falsa accusa. Il mistero del trionfo di Gesù su tanto dolore e afflizione alla fine della sua vita dava più senso a me stesso. Come avevo fatto molte volte in precedenza, passai i giorni che portavano alla Pasqua in tranquille ore di intensa preghiera mattutina, per poter avere una migliore comprensione di Gesù, per essere così più efficace nel mio lavoro di sacerdote e di vescovo. […]
Ma all’inizio di giugno Dio rivelò che aveva altri piani per me.
[…] Chiamai il mio medico personale, il dott. Warren Furey, che è primario al ‘Mercy Hospital’ di Chicago, e gli dissi quello che mi stava succedendo. […] Come feci la domanda, fui pervaso da un senso d’impotenza. Avevo riacquistato il controllo della mia vita dopo la falsa accusa ed ora ero qui a chiedere a qualcun altro di dirmi della mia vita, del mio corpo. Ricordando ora quel momento, penso a Dio ed al piano che lui aveva predisposto per me. Penso anche ad altri che si trovano in uno stato di grande preoccupazione mentre attendono di sentire dal medico quale sarà il loro destino. Ora mi rendo conto che quando chiesi al dott. Furey di dirmi la situazione, dopo i risultati dell’analisi, dovevo staccarmi da qualsiasi cosa. Di nuovo. Dio mi stava insegnando ancora una volta proprio quanto poco controllo realmente abbiamo e quanto sia importante fidarsi di lui. Avevo bisogno di Dio in quel momento, come avevo bisogno di lui prima.
“Ha un tumore al pancreas”, disse il dott. Furey. “Oh”, chiesi, “quali sono le possibilità che sia maligno?”. Senza batter ciglio il dottore disse: “Circa il 99 per cento e più”. “Allora sono nei guai”, dissi ad alta voce, solo per sentirli dire: “Sì, lei è proprio nei guai”.
Una digressione: mio padre
Più accettavo la terribile realtà di avere il cancro, più pensavo a mio padre, Giuseppe Bernardin. Egli morì di cancro nel 1934, appena sette anni dopo che aveva sposato mia madre Maria. Io avevo sei anni e mia sorella, Elaine, ne aveva due. Da quel giorno in poi noi tre abbiamo vissuto e lavorato assieme, per sbarcare il lunario. Mandavamo avanti in suo onore la speranza e i sogni che lui portò in America quando egli e mia madre lasciarono la loro terra, Tonadico di Primiero, in Italia, per iniziare di nuovo la vita in Columbia, nella Carolina del Sud. Fin dall’infanzia ho saputo che il cancro cambia la vita: non solo la vita della persona che ne è colpita, ma anche la vita degli amici e dei familiari che amano quella persona e se ne prendono cura. Oggi penso spesso a mio padre, perché era un brav’uomo, che trattava il suo cancro con grande dignità. […]
Una digressione: mia madre
… la mia cara mamma, Maria Simion Bernardin, che ha quasi 92 anni e vive a poca distanza da me, nel centro per anziani delle Piccole suore dei poveri. In seguito alla morte di mio padre, mia madre trovò un lavoro come sarta per sostenere Elaine e me. Lei divenne per noi sia madre che padre. La sua forza durante la mia infanzia e nel corso di tutta la mia esistenza mi è servita come potente lezione di vita. Il duro lavoro paga; amare comporta dedizione e altruismo. Queste e tante altre virtù sono essenziali per una buona vita familiare.
Uno dei ricordi più belli della mia infanzia sono le ore che passavo sfogliando l’album delle fotografie che mia madre aveva portato con sé dall’Italia. Era sua abitudine sedersi con me e raccontarmi le storie della gente e dei posti ritratti nelle foto di ogni pagina. Da solo, poi, sfogliavo l’album per studiare tutti i dettagli di ogni foto. Quando finalmente feci il mio primo viaggio a Tonadico con mia madre e mia sorella, nel 1957, avevo 29 anni. Quello che mi sorprese fu il fatto che mi sentii immediatamente a casa. Avendo visto le foto mi sembrava di essere già stato lì prima! Sono ritornato più volte a Tonadico ed ogni volta mi sentivo a casa.
Per mia madre, insegnare a Elaine ed a me l’importanza della famiglia era essenziale. Mi sono sempre sentito fortunato di provenire da una famiglia ricca d’amore e il mio cuore si apre a quelli che non condividono la stessa esperienza. Credo, tuttavia, come ha sempre fatto mia madre, che la famiglia va ben oltre i legami di sangue. La famiglia è la comunità umana, la comunità cristiana, e noi dobbiamo imparare ad amarci l’un l’altro come una famiglia. Come in ogni famiglia, abbiamo i nostri dissensi, ma alla fine siamo uniti assieme.
[…] Una delle cose che ho osservato maggiormente della malattia è che ti chiude in te stesso. Quando siamo ammalati siamo portati a concentrarci sul nostro dolore e sulla nostra sofferenza. Possiamo sentirci addolorati per noi stessi e deprimerci. Ma è concentrandoci sul messaggio di Gesù – che attraverso la sofferenza svuotiamo noi stessi e ci riempiamo della grazia e dell’amore di Dio – che possiamo iniziare a pensare ad altre persone ed ai loro bisogni; diventiamo ansiosi di camminare con altri, con le loro croci e nella sofferenza.
Una digressione: l’importanza della preghiera
Molti anni fa imparai che l’unico modo per dedicare tempo di prima qualità alla preghiera era di alzarmi presto la mattina. (debbo aggiungere, fra parentesi, che non avevo un grande desiderio di alzarmi così presto; di norma cercavo di rimanere a letto il più possibile). Le prime ore del mattino, prima che il telefono e il campanello della porta inizino a suonare, prima dell’arrivo della posta, mi sembrava che fossero le migliori da impiegare come tempo di prima qualità con il Signore. Promisi così a Dio e a me stesso che avrei dedicato la prima ora di ogni giorno alla preghiera, pur non sapendo se avrei mantenuto questa promessa.
Sono felice di dire che l’ho fatto per quasi vent’anni. […]
Quello che ho visto con il passare degli anni è che l’effetto di quella prima ora non termina quando finisce l’ora stessa. Quell’ora mi unisce certamente con il Signore nella prima parte della giornata, ma mi tiene pure unito a lui durante tutto il resto del giorno. … se Gli si dedica del tempo, un po’ alla volta ci si unisce a Dio per tutta la vita, il che è molto importante.
Che cosa faccio durante la mia preghiera mattutina?
Prego parte della Liturgia delle Ore. Per me quella è una preghiera molto importante. E’ una preghiera della Chiesa, e mi sento collegato con tutte le persone, specialmente il clero e i religiosi, che recitano o pregano la Liturgia delle Ore in tutto il mondo. … una consistente parte delle preghiere delle varie Ore sono prese dai Salmi. Ho trovato che i Salmi sono straordinari perché collegano in maniera alquanto diretta ed umana le gioie e le sofferenze della vita, le virtù ed i peccati. Essi offrono il messaggio che alla fine Dio è vincente. …]
Ed è stato allora che dissi a qualche amico: “Cerca di pregare quando stai bene, perché quando sarai ammalato, probabilmente non lo farai”.