2 – Accuse false
Svuotarsi
Dio parla con noi molto delicatamente quando ci invita a far più spazio per lui nella nostra vita. La tensione che ne deriva non viene da lui, ma da me, mentre lotto per vedere come poter offrirgli un’ospitalità più completa, per poi farlo con tutto il cuore. Il Signore è chiaro su ciò che vuole, ma è veramente difficile distaccarmi da me stesso e dal mio lavoro per fidarmi completamente di lui. Il primo passo del distacco è certamente legato al fatto di svuotare me stesso di ogni cosa – i progetti che considero più ambiziosi, come le distrazioni che giudico le più piccole -, cosicché il Signore possa subentrare a tutto ciò.
La descrizione che San Paolo fa della missione di Gesù è sempre impressa nei miei pensieri: “Egli che era come Dio, non conservò gelosamente il suo essere uguale a Dio. Rinunziò a tutto: diventò come un servo, fu uomo tra gli uomini e visse come uno di loro. Abbassò se stesso, fu obbediente fino alla morte, alla morte in croce”. (Fil 2,6-8).
Per colmare il vuoto fra ciò che sono e ciò che Dio vuole da me, devo svuotare me stesso e lasciare che Gesù venga ad impossessarsi di me. Ho pregato per comprendere il programma che egli ha predisposto per me. Alcune cose spiccano. Egli vuole che io mi concentri sull’essenziale del suo messaggio e del suo modo di vivere, piuttosto che sulle cose secondarie, che occupano inutilmente così tanto del nostro tempo e dei nostri sforzi. Devo semplicemente abbandonarmi all’amore e alla fiducia in Dio.
Affrontare la falsa accusa
Mercoledì 10 novembre 1993 ero a New York per l’annuale conferenza Thomas Merton alla Columbia University. Il Cardinale Jhon O’Connor, con cui stavo, mi disse che giravano chiacchere allarmanti. Un cardinale statunitense stava per essere accusato di abuso sessuale. La fonte era incerta e la sua vaghezza la faceva sembrare meschina e di malaugurio al tempo stesso.
Quando, il giorno dopo, ritornai nel mio ufficio, le chiacchere erano aumentate. Rimasi sbalordito nell’apprendere che qualcuno faceva congetture asserendo che il cardinale accusato ero io. Io sarei stato su tutti i giornali il giorno successivo, con l’accusa che quando ero vescovo a Cincinnati avrei abusato sessualmente di un seminarista.
L’accusa fu per me spaventosa e devastante. Provai a stare al di sopra delle voci non confermate e ritornai al lavoro, ma questa infamante accusa contro i miei più profondi ideali ed impegni annullava la mia attenzione. Mi sedetti tranquillo per un momento e posi a me stesso una semplice domanda: era questo ciò che il Signore stava preparando per me, affrontare la falsa accusa di qualcosa che io sapevo che non aveva mai avuto luogo? False accuse, pensavo, che erano state provate dallo stesso Gesù […]…il nome del querelante era Steven Cook, cercai nella mia memoria un volto che corrispondesse al nome, non ne apparse nemmeno uno. “Era uno studente del collegio di San Gregorio, ora sui 35 anni ed ammalato di AIDS. E’ tutto quello che sappiamo”. Mi dissero. Ma chi era, nel nome di Dio, questa persona, e perché mi stava accusando di qualcosa che lui sapeva – come lo sapevo io – che non era mai accaduta? Ricordai poi di aver sentito che la stessa persona si era già lamentata presso l’arcidiocesi di Cincinnati di un prete che era nella facoltà del seminario di San Gregorio. Pensai alla mia sincera preghiera di imparare a distaccarmi e a svuotare me stesso.
Mi sentii profondamente umiliato… Ma che cosa si può dire di un’imputazione che uno non ha visto, da parte di persone che non si conoscono, in merito a qualcosa che uno non ha fatto ? Avvertivo la presenza del maligno. Dal profondo della mia anima, tuttavia, sentivo le parole del Signore calmare la tempesta che si stava scatenando tutto attorno e dentro di me: “La verità vi farà liberi” (Gv 8,2).
Scrissi immediatamente il seguente comunicato: “Anche se non ho ancora visto il capo d’imputazione e non conosco i dettagli dell’accusa, c’è una cosa che conosco, ed affermo categoricamente: nella mia vita non ho mai abusato di nessuno, da nessuna parte, in nessun tempo e luogo”.
Decisi che la verità era la sola difesa che avevo.
La verità vi farà liberi. Io ci credevo, e mi fidai del Signore; la mia fede mi rassicurava che la verità era tutto ciò che avevo, e tutto ciò che in realtà mi serviva. Essa sarebbe stata la mia verga ed il mio sostegno nella valle oscura (Sal 23,4) dei mesi seguenti.
[…] Ci vollero cento giorni prima che le false accuse contro di me cadessero, si possono descrivere questi giorni come un insegnamento di diritto, ma preferisco pensare ad essi come ad una profonda educazione dell’anima. L’intera vicenda servì in realtà come scena nel primo dei tre atti di un dramma che credo costituisca il mio pellegrinaggio spirituale durante gli scorsi tre anni. Il primo atto iniziò con la falsa accusa e si concluse con il mio incontro con l’accusatore e la riconciliazione con lui. Gli altri due atti, includono la diagnosi del cancro al pancreas e la mia preparazione alla morte. Al tempo dell’accusa ero solo all’inizio dei tre anni di scuola dello Spirito, ma mentre l’anno stava volgendo al termine, non potevo proprio prevederlo.
[..] Visto che le seccanti accuse non ressero alla prova della verità, iniziai a capire come Steven Cook fosse stato vittima di tutto questo episodio di cattivo gusto. La mia prima impressione che egli fosse stato strumentalizzato fu ampiamente confermata. Il 28 febbraio 1994, Steve chiese di sua iniziativa al giudice della Corte federale di Cincinnati di far cadere l’accusa contro di me.
Quello che mi colpì, non fu tanto il fatto che un inquieto sacerdote del seminario di San Gregorio avesse involontariamente avuto un ruolo nel promuovere l’accusa contro di me, quanto piuttosto l’apprendere un po’ alla volta della difficile vita di Steven Cook. La sua breve ed infelice permanenza al seminario di Cincinnati era stata seguita da un allontanamento dalla Chiesa e dal lasciarsi andare a uno stile di vita promiscuo. Soffriva di AIDS e veniva curato da un amico in un appartamento a Philadelphia, il cui indirizzo era tenuto loro segreto. Egli era la pecora che era andata smarrita e come pastore sapevo che dovevo andarla a cercare.
L’incontro con il mio accusatore: perdono e riconciliazione
Dopo che il caso venne a cadere e la mia conferenza stampa finale sull’argomento fu coperta da quella stessa CNN che aveva svolto una parte così rilevante nel pubblicizzare l’accusa iniziale, mi rituffai nel mio lavoro carico di impegni. Eppure pensavo spesso a Steven che si trovava ad essere esiliato nella solitudine e nella malattia sia dalla casa paterna sia dalla Chiesa. Alla metà di dicembre avvertii profondamente che tutta questa storia non sarebbe stata completa finché non avessi dato seguito alla mia chiamata di pastore di andare a cercarlo. Pregavo solo che mi ricevesse.
Non conoscendo il suo indirizzo o numero telefonico e non volendo prenderlo di sorpresa, contattai la mamma di Steven, Mary, attraverso padre Phil Seher, suo parroco di Cincinnati e mio amico. Lei fece sapere che Steven non solo voleva, ma aveva un vero desiderio di incontrarmi. Volai a Philadelphia con padre Scott Donahue il 30 dicembre 1994. Monsignor James Malloy, rettore del seminario di San Carlo Borromeo, dove l’incontro doveva aver luogo, venne a prenderci e ci portò nel campus del seminario, nel sobborgo di Overbrook.
Ero un po’ ansioso quando entrammo nel piazzale coperto di chiazze di neve. Di lì a pochi minuti egli arrivò con il suo amico Kevin. Ci stringemmo le mani e io mi sedetti con Steven su un divano, mentre padre Donahue e Kevin presero posto sulle poltrone laterali. Gli spiegai che l’unica ragione che mi aveva spinto a richiedere l’incontro era di portare a termine il traumatico evento dello scorso inverno, facendogli sapere personalmente che non nutrivo alcun risentimento verso di lui. Gli dissi che volevo pregare con lui per il suo bene fisico e spirituale. Steven rispose che egli aveva deciso d’incontrarsi con me perché così poteva scusarsi per l’imbarazzo ed il male che aveva causato. In altre parole, tutti e due cercavamo una riconciliazione. Steven disse tuttavia che prima di continuare voleva raccontarmi della sua vita.
Con tono e gesti i quali indicavano che Steven aveva trattenuto per sé la storia per lungo tempo, mi disse che, quando era un giovane seminarista, un sacerdote, che egli riteneva suo amico, abusò sessualmente di lui. […] Le scuse di Steven sono state semplici, dirette, profondamente commoventi; io accettai le sue scuse. Gli dissi di aver pregato per lui ogni giorno e che avrei continuato a pregare per la sua salute e pace dello spirito. Divenne sempre più chiaro che egli era in precarie condizioni di salute.
Gli chiesi se voleva che celebrassi la Messa per lui. In un primo momento egli fu incerto. “Non sono sicuro di volere la Messa”, disse esitante; “mi sento molto lontano da Dio e dalla Chiesa da molto tempo”. “Forse, solo una semplice preghiera sarebbe più adatta”.
Dopo ciò, esitai per un momento, incerto di come egli avrebbe reagito al regalo che tolsi dalla mia borsa. Gli dissi che non avrei fatto pressioni sull’argomento, ma che volevo fargli vedere due oggetti che avevo portato per lui. “Steven”, dissi, “ti ho portato qualcosa, una Bibbia che ho dedicato a te. Ma capisco, e non mi sentirò offeso se non la vuoi accettare”. Steve prese la Bibbia nelle mani tremanti, la strinse al suo cuore mentre le lacrime gli sgorgavano dagli occhi.
Presi poi dalla mia borsa un calice di cento anni. “Steven, questo è un calice di un uomo che non conosco nemmeno. Egli mi chiese di usarlo per celebrare la messa per te un giorno”.
“Per piacere”, rispose Steven in lacrime, “celebriamo la Messa ora”.
Mai nel mio intero sacerdozio ho vissuto una riconciliazione più profonda. Le parole che sto usando per raccontarvi questa storia non sono sufficienti a descrivere la potenza della grazia divina all’opera in quel pomeriggio. E’ stata una manifestazione dell’amore di Dio, di perdono e conforto che non dimenticherò mai.
Kevin, l’amico di Steven, chiese se egli, un non cattolico, poteva partecipare; gli dissi che andava bene. Andammo tutti nella cappella del seminario, dove, con grande gioia e ringraziamento, padre Donahue ed io celebrammo la messa della Festa della Santa Famiglia. Al saluto della pace ci abbracciammo tutti, e poi unsi Steven con l’olio degli infermi.
Dissi poi alcune parole: “In ogni famiglia ci sono tempi in cui c’è dolore, rabbia o alienazione. Ma non possiamo sfuggire alla nostra famiglia. Noi abbiamo una sola famiglia e così, dopo ogni caduta, dobbiamo compiere ogni sforzo per essere riconciliati. Così anche la Chiesa è la nostra famiglia spirituale. Una volta che ne siamo divenuti membri, possiamo esserne feriti o estromessi, ma essa è pur sempre la nostra famiglia, e dal momento che non ci rimane altro, dobbiamo dare spazio alla riconciliazione. E ciò è quello che abbiamo fatto durante questo intero pomeriggio”.
Prima che Steven se ne andasse, mi disse: “Un grande peso mi è stato tolto oggi. Mi sento guarito e davvero in pace”. […] Mentre ritornavamo a Chicago quella sera, padre Donahue ed io sentivamo la leggerezza dello spirito che un pomeriggio di grazia porta nella vita di una persona. Io non potevo fare a meno di pensare che il travaglio dell’accusa portò direttamente a questa straordinaria esperienza della grazia di Dio nella nostra riconciliazione sacramentale. E non potevo non ricordare l’opera del Buon Pastore: cercare di restituire all’ovile chi, solo per un po’, è andato smarrito.
Steven ed io rimanemmo in contatto; sei mesi dopo, quando mi venne comunicata la diagnosi di cancro al pancreas, la sua fu una delle prime lettere che ricevetti. Egli aveva pochi mesi di vita quando la scrisse, riempiendola di comprensione e incoraggiamento nei miei confronti. Aveva programmato di farmi visita a Chicago alla fine di agosto, ma era troppo ammalato. Steven morì in casa di sua madre il 22 settembre 1995, pienamente riconciliato con la Chiesa. “Questo”, disse sorridente dal letto di morte a sua madre a proposito del suo ritorno ai Sacramenti, “è il mio regalo per te”. Il sacerdote di Cincinnati che lo assistette me lo disse poco dopo.