1 – Il distacco
1 novembre 1996
Miei cari amici,
è la festa di Tutti i Santi e sono a casa perché il centro pastorale dell’arcidiocesi è chiuso. E’ molto più freddo di qualche giorno fa, ma il tempo è ancora bello per passeggiare, cosa che faccio normalmente.
Oggi, però, non farò nessuna passeggiata; una fatica diffusa, caratteristica degli ammalati di cancro, mi assale. Avverto inoltre un forte malessere nella parte bassa della schiena e alle gambe, a causa della stenosi spinale che mi è stata diagnosticata un anno fa.
Così, seduto alla mia scrivania, ho pensato di fare qualcosa d’altro. Ho deciso di scrivere questa lettera del tutto personale, per spiegare il perché di questo libretto, Il dono della pace. Non è un’ autobiografia, ma semplicemente una riflessione sulla mia vita ed il mio ministero durante gli ultimi tre anni; anni che sono stati gioiosi nella stessa misura in cui sono stati difficili. Le mie riflessioni cominciano con l’infondata accusa di cattiva condotta sessuale lanciata contro di me nel novembre del 1993, e continuano nel presente, nel momento in cui mi sto preparando per l’ultimo stadio della mia vita, iniziato nel giugno del 1995 con la diagnosi di una forma aggressiva di cancro.
Parafrasando Charles Dickens in A tale of Two Cities, “è stato il tempo migliore, è stato il tempo peggiore”. Il peggiore per l’umiliazione, il dolore fisico, l’ansia e la paura. Il migliore per la riconciliazione, l’amore la sensibilità pastorale e la pace generata dalla grazia di Dio e dal crescente sostegno di tanta gente. Senza negare il primo aspetto, questa riflessione si concentra sul secondo, dimostrando come, se Glielo permettiamo, Dio scrive diritto sulle righe storte. In altri termini, questa riflessione è intesa ad aiutare altri a comprendere come il bene e il male siano sempre presenti nella nostra condizione e che, se ci abbandoniamo al Signore, se ci mettiamo interamente nelle sue mani, il bene prevarrà.
In termini strettamente personali, invito coloro che leggono questo libro a percorrere con me le ultime miglia del viaggio della mia vita. Quando raggiungiamo la porta, io dovrò entrare per primo -questa sembra essere la regola: uno alla volta, come stabilito. Ma sappiate che porterò ognuno di voi nel mio cuore! Alla fine, saremo assieme, intimamente uniti con il Signore Gesù, che amiamo così tanto.
Pace e amore,
Joseph Card. Bernardin
Il distacco
In tutto il mio cammino spirituale ho lottato per avvicinarmi sempre più a Dio. Mentre mi preparo ora al passaggio da questo all’altro mondo, non posso fare a meno di riflettere sulla mia vita e riconoscere i temi che, come vecchi amici, sono stati così importanti per me in tutti questi anni. Una realtà che affiora più di altre assume per me ora nuovo significato; la realtà del distacco.
Per distacco intendo la capacità di liberarci dal controllo su quelle cose che ci impediscono di sviluppare una relazione intima con il Signore Gesù.
Il distacco non è mai facile. Esso è, in realtà, il processo di un’intera vita. Ma il distacco è possibile se noi comprendiamo l’importanza di aprire i nostri cuori e – sopra tutto il resto – di sviluppare una vita di proficua preghiera. Mi ci è voluta una vita per imparare questa verità, ma ora voglio condividere con voi qualche esperienza personale e una storia che emerge sempre come punto di cardinale importanza nella mia vita.
Sono entrato in seminario quando avevo solo diciassette anni, e fin d’allora ho sempre cercato d’imparare come si prega. In quegli anni giovanili ero sotto la guida spirituale dei padri Sulpiciani, sia nel Seminario di santa Maria, a Baltimora, sia nel collegio teologico dell’Università Cattolica.
Avevano una particolare abitudine: di sera ci riunivano per fornirci dei punti su cui riflettere. La mattina, poi, prima della Messa, ci raccoglievamo in quella che era conosciuta come l’aula della preghiera per riflettere. C’erano delle volte in cui mi chiedevo se si trattasse del metodo migliore d’insegnamento, ma in retrospettiva debbo dire che tale metodo mi portò a comprendere l’importanza della preghiera ed il fatto che pregare non è una pratica a senso unico. La preghiera, piuttosto, comporta parlare ed ascoltare da ambo le parti.
Dopo la mia ordinazione, nel 1952, ho probabilmente pregato tanto quanto tutti i giovani sacerdoti di quegli anni. Parlavo agli altri – seminaristi, sacerdoti, persone laiche e religiosi – dell’importanza della preghiera, sottolineando che non potevano essere in contatto con il Signore se non pregavano. Ma talvolta mi sentivo ipocrita nel mio insegnamento, in quanto non stavo riservando il tempo adeguato alla preghiera. Non era che mi mancasse il desiderio di pregare o che avessi improvvisamente deciso che la preghiera non era importante. Si trattava, piuttosto, del fatto che ero molto occupato, e caddi così nella trappola di pensare che le mie opere buone fossero più importanti della preghiera.
Una sera, durante quel periodo, parlai con tre sacerdoti con i quali stavo cenando. Erano tutti e tre più giovani di me e due di loro li avevo ordinati nel 1972, quando ero a Cincinnati. Nel corso della conversazione dissi che mi riusciva difficile pregare e chiesi loro se mi potevano aiutare. Non sono certo di essere stato del tutto onesto quando chiesi aiuto, in quanto non sapevo se avrei voluto fare quello che mi avrebbero suggerito. “E’ sincero in ciò che chiede? Vuole davvero imprimere una svolta alla sua vita di preghiera?”, mi chiesero. Che cosa potevo dire? Non potevo dire di no, dopo quello che avevo appena detto loro!
In termini molto diretti e schietti mi aiutarono a rendermi conto che da un sacerdote e vescovo quale ero, stavo sollecitando gli altri ad una spiritualità che io stesso non praticavo interamente. Quello fu un punto di svolta nella mia vita. Quei sacerdoti mi aiutarono a capire che si deve dare alla preghiera ciò che loro chiamarono, e che oggi molti direttori spirituali definiscono, ‘tempo di prima qualità’. Non si può pregare ‘in fretta’. E’ necessario mettere da parte del tempo buono, tempo di qualità. Dopo tutto, se crediamo che il Signore Gesù è figlio di Dio, allora, di tutte le persone alle quali dedichiamo noi stessi, Lui è quella cui dobbiamo dare il nostro meglio.
Decisi così di dare a Dio la prima ora della mia giornata, malgrado qualsiasi impedimento, per essere con lui in preghiera e meditazione, dove avrei provato ad aprire ancor di più la porta al suo ingresso. Questo mise la mia vita in una prospettiva nuova e più elevata; mi resi pure conto che ero in grado di condividere con altri le difficoltà del mio viaggio spirituale. Il fatto di sapere che io passavo attraverso le stesse situazioni in cui essi si trovavano, dava loro molto incoraggiamento.
Si aggiunga che il distacco non è mai facile.
E’ chiaro che Dio vuole che il mio distacco avvenga ora. Ma c’è qualcosa in noi, esseri umani, che ci porta a trattenere noi stessi e qualsiasi cosa e chiunque ci sia familiare. La mia preghiera quotidiana è che io possa spalancare le porte del mio cuore a Gesù ed alle sue aspettative verso di me. Ora il mio distacco è più spontaneo, sollevato dal Signore dalle frustrazioni che talvolta provavo quando, prima, il più scrupolosamente possibile, cercavo di liberarmi dalla presa delle cose. Ho riflettuto su Zaccheo, l’esattore delle tasse, la cui storia è raccontata nel Vangelo di Luca. Quando egli accolse Gesù nella sua casa, qualcuno protestò per il fatto che Gesù era andato nella casa di un peccatore. Zaccheo, “stando davanti al Signore, gli disse: ‘Ecco, Signore, io do ai poveri la metà dei miei beni, e se di qualcosa ho defraudato qualcuno, gli rendo il quadruplo’. Gesù gli disse: ‘Oggi è venuta la salvezza in questa casa, perché anche lui è figlio di Abramo. Infatti, il Figlio dell’Uomo è venuto a cercare e a salvare quello che era perduto’” (Lc 19,8-10)
Ho voluto aprire completamente la porta della mia anima come Zaccheo aprì la porta della sua casa. Solo in questo modo il Signore può impossessarsi completamente della mia vita. Eppure, molte volte nel passato l’ho fatto entrare solo in parte. Ho parlato con lui, ma sembrava che avessi paura di permettergli di prendere possesso di me.
Perché avevo paura? Perché ho aperto la porta fino ad un certo punto e non oltre? A volte penso che è stato perché volevo avere successo, ed essere riconosciuto come persona di successo. Altre volte mi turbavo quando leggevo o sentivo critiche sulle mie decisioni o sul mio operato. Quando prevaleva questa sensazione, volevo controllare le cose, volevo cioè che esse andassero nel modo ‘giusto’. Quando reagivo così, facevo attenzione a non porre molta fiducia nelle persone finché non mi avessero dato prova di meritarsela.
Mi accorsi che in quelle circostanze mi comportavo nello stesso modo con Dio. Mentalmente, comprendevo che di Lui ci si può e ci si deve fidare. Ricordavo a me stesso che questa è la sua Chiesa, che niente accade che non sia da Lui disposto. Nonostante sapessi tutto ciò, spesso mi rendevo conto che mi frenavo, che ero restio ad un completo distacco.
Avevo forse paura che il volere di Dio sarebbe stato diverso dal mio e che, se il suo volere avesse prevalso, io sarei stato criticato? O c’era un’altra ragione? Forse, psicologicamente ed emotivamente, non sono proprio stato in grado di operare il distacco.
Parte del motivo della mia riluttanza era il fatto che ogni giorno la gente esigeva molto da me. Le loro aspettative erano così numerose, così varie e personali, che mi sembrava di non potermi liberare da tali pressioni così totalmente come avrei voluto. Mi sono pure chiesto se si trattasse semplicemente della superbia che mi prendeva, rendendomi refrattario dal correre il rischio del distacco. Oppure qualche volte mi sentivo quasi paralizzato, perché in un certo senso mortificato da gruppi che nella Chiesa si contendevano la mia attenzione e il mio sostegno: quelli che si ritenevano progressisti, che volevano che io portassi la loro bandiera, e quelli che si ritenevano custodi della tradizione, che si attendevano che io fossi dalla loro parte. Ognuno aveva una richiesta sincera, eppure io avvertivo che dovevo fare di tutto per conseguire ciò che era giusto per l’intera Chiesa. Talvolta la tensione che ne conseguiva mi portava ad essere cauto nell’esprimere ciò che realmente pensavo.
In altri termini, mi richiedevo se rifiutavo di far entrare interamente Dio nella mia anima perché temevo che egli avrebbe insistito che, nella mia vita personale, mi distaccassi da certe cose che ero restio o riluttante ad abbandonare. Sapevo che queste erano le cose ordinarie, e molte di esse erano elargizioni avute da altri. Eppure, riconoscevo che potevo esserne attaccato.
Più di quindici anni fa cedetti tutti i soldi che avevo e dissi che non avrei mai più avuto un libretto di risparmio o azioni. Mi impegnai a conservare solo quello che mi serviva per mantenere il mio conto corrente bancario. Iniziai a depositare quasi tutte le offerte in denaro in un conto speciale dell’arcidiocesi utilizzato per opere personali di carità e progetti speciali di varia natura. Ciononostante, ho ricevuto così tante elargizioni negli ultimi anni che ho iniziato a risparmiare qualcosa per me stesso, con la giustificazione che avrei impiegato i fondi quando fossi stato in pensione o per la mia anziana madre. Ora ho riesaminato tutto ciò e sono sicuro di essere libero dalle cose materiali, cosicché non sono più distratto nella mia relazione con il Signore.
Recentemente, mentre lottavo per il distacco, mi chiesi se Dio stesse preparandomi per qualcosa di speciale o se la lotta fosse solo parte di un normale processo spirituale. Si tratta certamente di parte di quest’ultimo. Ma ora so che Gesù stava preparando per me qualcosa di speciale.
Gli ultimi tre anni mi hanno insegnato molto su me stesso e la mia relazione con Dio, la Chiesa e gli altri. Tre eventi principali, nell’ambito di questi tre anni, mi hanno portato dove sono oggi. Primo, la falsa accusa di cattiva condotta sessuale nel novembre 1993, e la mia riconciliazione finale con il mio accusatore un anno dopo. Secondo, la diagnosi di cancro al pancreas nel giugno 1995 e l’intervento chirurgico che mi ha ‘guarito’ per quindici mesi. Terzo, il ritorno del cancro alla fine di agosto del 1996 -questa volta al fegato – e la mia decisione di interrompere un mese dopo la chemioterapia e vivere nella maniera più piena possibile il resto della mia vita.
Entro questi eventi principali si colloca la storia della mia vita – quello che ho creduto di essere e quale persona ho voluto fermamente essere. A motivo della natura di questi tre eventi, ho approfondito e sviluppato la mia spiritualità e acquisito un’analisi interiore che voglio condividere. Queste riflessioni non sono intese per nessuna ragione come un’autobiografia completa; si tratta semplicemente di riflessioni che vengono dal mio cuore e sono rivolte a voi. Spero che esse siano di aiuto nella vostra vita, cosicché anche voi possiate godere della pace interiore – meraviglioso dono che Dio mi ha dato – che io abbraccio ora, mentre sono sulla soglia della vita eterna.