Lettere dal Kenya – 3
16 agosto 1977 Wajir
[…] aspettiamo un gruppo in visita ufficiale, un’organizzazione semiprivata africana con aiuti soprattutto dall’estero ma anche dal governo che da almeno due anni vola e rivola a Wajir con enormi progetti… di cui non ha attuato ancora nulla. Noi tuttavia siamo sempre state uno dei loro maggiori centri di interesse per cui siamo state e continuiamo ad essere a disposizione. Assieme a loro viene anche un team di gente (governo in questo caso) che continua a venire in visita ufficiale, che si complimenta con noi, che ha tanti progetti… ma che non è stata ancora capace di concretizzare. Dopo la loro visita c’è un meeting alla TB di manyatta che si preannuncia arroventatissimo perché ci saranno tutti i “capi” dell’ospedale e la PMO [ufficiale sanitario provinciale] presenterà il suo nuovo piano di sviluppo per la TB manyatta che consiste nella sostanza nel liberarsi di tutto o quasi del personale dell’ospedale e di rimettere me unica responsabile delle medicine… questo naturalmente perché la collaborazione con l’ospedale si è rivelata impossibile e comunque spinosissima per la loro gelosia incontrollata e incontrollabile nei miei confronti e da parte mia perché è troppo scarnificante continuare ad accettare la loro indifferenza nei confronti dei malati, la loro irresponsabilità ai limiti del lasciar morire la gente pur di non dover prendere iniziative, pur di essere lasciati in pace. Ho tentato il tutto per tutto – ho accettato tutto – mi sono lasciata schiacciare da tutti purché i malati potessero essere curati e guariti meglio di quanto sia mai successo in questo mondo prima della Bismillahi Manyatta… ma capisco ogni giorno di più che non potendo più garantire che i malati prendano le medicine perché la supervisione è nelle mani di infermieri che nonostante biasimi, richiami, rimproveri da parte dei loro superiori, nonostante il loro orgoglio sfrenato nei confronti dei bianchi che “sono stranieri sopportati a mala pena nel loro paese” e che comunque “”non possono sapere fare meglio di loro stessi” non supervedono e tirano le medicine dietro ai malati pur di liberarsene al più presto possibile… onestamente io non sarei più potuta rimanere.
14 ottobre 1977 Wajir
Il lavoro è molto, le preoccupazioni moltissime, il clima si sta facendo sempre più difficile ogni giorno e poi… i “malucci” dell’età (34 anni!) e del clima… e così di tempo proprio pieno per servire gli altri non ne rimane mai molto… e io mi ritrovo sempre troppo indietro… ma è una storia vecchia di anni e voi la conoscete bene. Certo che rileggendo s. francesco l’altro giorno, mi ha colpito moltissimo quello che lui diceva in punto di morte. Fratelli, incominciamo a servire Cristo, perché fino ad ora poco abbiamo progredito. Come è vero anche per la mia vita. Quanto poco ho progredito… avrei voluto arrivare “fino ai confini del mondo”… Dio sa il mio dolore e avrà pietà almeno di questo se non del mio peccato.
1 dicembre 1978 Nairobi
Un’inestinguibile sete nel cuore di comunicare e una ferita che non si rimargina perché il tempo mi sfugge e io mi ritrovo giorno dopo giorno a mani vuote. Giorni pieni, pienissimi, giorni dolorosi, malati, malatissimi, sofferenti, collassati, un’indifferenza intorno da fare paura, una sensazione di hopelessness [impotenza]. Di impossibilità a cambiarli, a dare loro il senso dell’onestà professionale, un cuore capace di compassione. Parlo dei dipendenti governativi, naturalmente.
Sono a Nairobi, sono affranta ed esausta. Vorrei solo piangere, ma le pareti sono sottili. Sarebbe di pace anche poter dormire, ma non sono capace. Mohamed Elmi, il mio meraviglioso watchman [guardiano], l’uomo che più amavo a Wajir, è morto questa mattina al Kenyatta Hospital. Era stato assalito nella casetta del generatore l’altra notte da una banda di robbers [ladri]. Picchiato selvaggiamente in testa, legato e imbavagliato e poi chiuso dentro la casetta. Io lo aspettavo come ogni sera per ricevere le chiavi del generatore e consegnargli il thermos del tè. Dopo soli due minuti di ritardo non ho più avuto dubbi […] Sono corsa alla finestra posteriore della cucina e ho visto una torcia ferma, luminosa fuori dalla casetta del generatore, ho chiamato a gran voce Mohamed, Mohamed, la torcia si è spenta, still silence [silenzio totale, non ho più avuto dubbi. I ladri devono essere fuggiti…Alle due del pomeriggio, sull’aereo del flying doctors, lasciavo Wajir col mio Mohamed in coma. Alle cinque entravo al Kenyatta Hospital.
… L’aereo è ormai vicino a Wajir. Siamo su un mare di nuvole, il cielo è azzurro, tenerissimo, la vita continua e prevale sul dolore, il mondo ha sete d’amore e di tenerezza. Continueremo a lottare -io voglio solo vivere d’amore – e quando finalmente un giorno riposerò in Lui, come già riposa il nostro Mohamed, tutto questo enorme mistero di dolore, di male, di violenza sarà svelato.
C’è un libro della Simone Weil che amo immensamente – fino a perdere la testa: Waiting on God: L’attesa di Dio. Anch’io proprio così. Vivo nell’attesa di Dio. Non c’è nient’altro che mi interessa all’infuori di Lui.