I segni liturgici di questi giorni
Avvicinandoci alla Pasqua può essere utile “guardare” ai segni che la liturgia ci offre, per imparare a comprenderne la ragione e l’essenzialità. La ragione, perché ogni gesto ha una radice profonda ed é espressione umana e tangibile di verità profonde; l’essenzialità, perché facilmente l’uomo “religioso” tende a sacralizzare il segno, a farlo diventare un gesto compiuto in sé, che non rimanda più alla verità che esprime … e che a volte chiede anche di essere aggiornata. Questa contraddizione é paradossalmente contenuta nel “bacio” di nostro fratello Giuda, che proprio con il segno dell’amore umano e del legame tra gli uomini da il segno di riconoscimento di Gesù per coloro che non lo conoscono.
I segni necessitano sempre di comprensione e di riconoscimento: ecco quindi alcune note per riscoprirne la ragione e l’essenzialità.
Il segno dell’ulivo
La pasqua, ebraica e cristiana, coincide, nel Mediterraneo, con l’inizio della stagione primaverile, con la potatura degli alberi (ed in particolare dell’ulivo). Così l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, sul dorso di un puledro d’asina, é accompagnato dalla festa con i rami. Gli scarti della potatura, nella civiltà contadina, non sono solo facili da trovare ma diventano il segno dell’addobbo, dell’esultanza, e della pura festa! Sono germogli, non feriscono, si piegano, sono flessibili, non sono “spade e bastoni”. Per questo si fa festa con l’ulivo e mentre riceviamo la “benedizione” di Dio, che si compiace e dice bene di ogni gesto di pace, noi portiamo questo segno nelle nostre case, nei nostri campi, nei luoghi del nostro lavoro; lo consegniamo ai vicini; lo distribuiamo a chi lo accoglie. Il segno, infatti, ci serve a ricordare la benedizione di Dio sull’uomo e sul creato (per questo i contadini lo mettevano anche nei filari, nelle stalle). L’ulivo “benedetto” non è quindi un oggetto “sacro”, un ramoscello che ha in sé doti particolari; non serve ad allontanare o avvicinare, qualcuno o qualcosa, non cambia la realtà, l’andamento della stagione, il lavoro o la storia … ma ci serve a ricordare: ll nostro legame con Dio, il nostro legame con i fratelli, con la casa, con il lavoro, con il creato … e a fare “pace”! Si, il segno dell’ulivo, come quello che la colomba riporta a Noé, ci ricorda il “senso” e la direzione in cui camminare.
La “cena” e la passione
La messa “in coena domini” del giovedì santo é realmente una “cena”; non é un “pranzo” e il suo svolgersi alla sera non serve solo a favorire la partecipazione, ma ad entrare nel clima di una cena “fraterna”. Perché la “cena”, a differenza del “pranzo”, é riservata agli “amici”, a chi predilige l’intimità, a chi non ha bisogno di farsi vedere, a chi “attende” e “scruta i cieli”, a chi “cerca luce” nel “buio della notte” …
Chi conosce i riti ebraici della Pasqua sa che questa “cena” non é una memoria o un ricordo del passato, ma presenza di Dio nella storia di un popolo: “fummo schiavi”. E’ quindi ancora per noi un “oggi”, una “cena” che si svolge mentre l’umanità fa esperienza dei propri limiti (come ci testimonia la pandemia) e della schiavitù che ci fa assumere la logica della violenza (come ci testimonia il continuo ricorso agli armamenti e alla guerra).
La tradizione ambrosiana, che sottolinea il nostro accompagnare la passione del Signore Gesù, non si ferma alla “cena” ma allarga il nostro sguardo sul segno di Giona, sulla violenza subita da Gesù, fino al tradimento di Pietro. La conclusione della celebrazione, con la riposizione dell’Eucarestia in un luogo diverso dal solito, ci introduce già alla “mancanza” del Signore che la tradizione ambrosiana pone al venerdì, quando viene spogliato l’altare.
Il “dopocena”: dalla cena alla morte in croce
Rimanere in preghiera dopo la “cena” non é solo attenzione alla vicenda di Gesù, che invita i suoi: “restate qui e vegliate con me”, “vegliate e pregate”; é imparare da Lui ad assumere la realtà, quello che succede, come occasione e motivo di vigilanza e di preghiera. E’ una sollecitazione a leggere “i fatti” che succedono, anche oggi come allora, restando in essi, vegliando e pregando. Imparando a confidare sempre in una “presenza” che ci tiene sempre in relazione con il Padre e ci insegna a seguire i suoi sentieri.
Questo atteggiamento ci accompagna non solo nel “dopocena”, con la preghiera di chi rimane in chiesa, ma fino alla celebrazione della passione e della morte di Gesù in croce.
L’adorazione della croce
La morte in croce di Gesù, pur scandita dal suono delle campane “a morto”, impone un passaggio fondamentale che avviene proprio con l’adorazione della croce: il passaggio dalla morte subita alla vita donata. La morte di Gesù ci mostra il suo “passaggio”, ci dimostra il suo amore “fino alla fine” e “compie” quanto la “cena” ha anticipato. Per questo la Chiesa “riconosce” nel passaggio della croce la “regalità” del suo Signore e si veste di rosso, del colore di coloro che “danno la vita”.
Così la Chiesa in questo giorno in cui siamo rimasti “senza altare” (la mensa dell’altare non viene semplicemente sparecchiata, ma spogliata di tutto, rimossa dalla sua funzione) pone la croce al centro della chiesa. E alla croce riserva, solo il venerdì santo, il segno dell’adorazione che é riservato solo ed esclusivamente alla presenza eucaristica.
Il gesto liturgico dell’adorazione si esprime con la genuflessione, con il piegamento del ginocchio: é il gesto del ministro (servo) che sta in piedi davanti al suo Signore ma con il ginocchio piegato perché si riconosce da Lui dipendente. E’ il gesto che più di ogni altro esprime il “legame”, non la sottomissione in stile militare. Per questo la tradizione esprime l’adorazione con il “bacio” al crocifisso, che in questo momento non si può fare (pandemia).
Ricordiamoci in questo giorno di genuflettere davanti alla croce, di manifestare il nostro “legame” con il Signore “in croce”.
La preghiera universale
Il senso profondo del venerdì santo si manifesta nel dono della vita, da parte del Signore Gesù, e nella grande preghiera al Signore perché sia fonte di vita per chi abita la terra e per chi vive nei cieli. Questa preghiera, non ci sfugga il dettaglio, sostituisce oggi la preghiera eucaristica tipica della Messa, senza la partecipazione alla “cena”. Ne riassume tutto il senso ed abbraccia tutti: uomini e donne, piante e animali, rocce e creato, presente e passato, viventi e defunti. Per questo é il prototipo della preghiera universale che la Chiesa rivolge al Signore quando celebra l’Eucarestia.
La “mancanza” di Gesù
Dopo la morte di Gesù i suoi discepoli fanno esperienza della sua assenza e della sua mancanza. E’ l’esperienza che facciamo, anche personalmente, quando muore una persona cara, a cui siamo legati. Ed é quello che la Chiesa ci invita a fare, riflettendo su come sarebbe la nostra vita se Cristo non fosse risorto (come ci ricorda Paolo in 1Cor. 15, 14). Fare esperienza della mancanza ci aiuta, come i discepoli, a cogliere la sua presenza in situazioni e modi che non riconoscevamo più.
Per questo alla celebrazione della passione e morte di Gesù del venerdì santo segue il grande silenzio del sabato, fino alla notte di Pasqua. Il silenzio ci consente di custodire la mancanza, di comprendere l’essenziale, di distinguere ciò che conta da quello che é secondario … e ci insegna ad ascoltare e quindi a fare ordine, a fare pulizia, a rimuovere, a scegliere.
Il fuoco e il cero
Per comprendere il passaggio che la liturgia ci invita a fare nel celebrare l’inizio della veglia pasquale dobbiamo situarci “al buio”: ai nostri giorni é quasi impossibile trovarci al buio, anche di notte. Il buio manifesta la mancanza, rende difficile l’orientamento, e rende assenti le relazioni vicine, che non vediamo anche se ci sono. Ponendoci in questa situazione, facendo l’esercizio mentale di porci “al buio”, diventa illuminante, non solo esteticamente, l’accensione del fuoco, la sua benedizione, l’accensione del cero e il canto dell’annuncio pasquale (preconio). Lasciamoci guidare, per quanto possibile, dalla luce del fuoco e del cero (Cristo, nostra luce); teniamo fissi i nostri occhi sulla “luce di Cristo”.
Il battesimo
La “veglia pasquale” é una celebrazione “unica” in tutti i sensi. Non solo perché ha un ingresso bello e solenne, molte letture e tante cose “in più” rispetto ad una Messa, ma perché é il memoriale della Pasqua: di Gesù e di tutti i suoi discepoli, noi compresi. Solo nella veglia pasquale tutto il popolo di Dio é convocato per “rinnovare” la propria promessa battesimale. Il cammino quaresimale é un percorso battesimale, che accompagna i catecumeni, se presenti, e contraddistingue il cammino di tutti i credenti, secondo la tradizione ambrosiana: esso trova compimento per tutti nella veglia pasquale in cui il Signore ci introduce (se catecumeni) e ci conferma (tutti) nella sua sequela: é in questa occasione unica che tutti, senza distinzione tra catecumeni e battezzati, facciamo insieme le promesse battesimali.
La resurrezione di Gesù immette nella storia i doni del risorto ed affida alla Chiesa e ai credenti il compito di custodirli e offrirli a tutti. La partecipazione alla veglia pasquale manifesta questo passaggio, il “fare la Pasqua” con il Signore.
L’ottava
Per comprendere la centralità della Pasqua di Gesù nella vita dei credenti può servirci ricordare che, secondo la liturgia, il giorno di Pasqua, iniziato con la veglia, si conclude la domenica successiva: é quindi un giorno che dura otto giorni (ottava).
Non solo: tutte le domeniche fino alla Pentecoste (=50 giorni) non sono dette domeniche “dopo Pasqua” ma sono anch’esse domeniche “di Pasqua”.
Senza dimenticare che qualsiasi domenica é “pasqua settimanale”.
Il confronto tra rito ambrosiano e romano
La tradizione ambrosiana e romana del triduo pasquale ha bisogno di essere compresa, per evitare quelle incomprensioni che, invece, ci portano a ritenerci “privati” di alcuni “segni”, come la “lavanda dei piedi” del giovedì, la “comunione” del venerdì o le candele accese della veglia pasquale (dal punto di vista ambrosiano); oppure della lettura della “passione” del giovedì, della mancanza della “comunione” al venerdì, del “preconio” o dell’annuncio della resurrezione nella veglia pasquale (dal punto di vista romano).
Il rito ambrosiano privilegia e preferisce la scansione “storica” dei fatti, si sofferma sul racconto e sui particolari perché la nostra attenzione colga il sacrificio e la sofferenza del figlio dell’uomo: il riferimento scelto é il vangelo nel racconto di Matteo. La revisione liturgica in uso dall’avvento del 2008 ha rafforzato questo stile, fissando molti dettagli (canti, salmelli e movimenti), focalizzando l’attenzione dei fedeli sulla “vita di Gesù”.
Il rito romano, invece, privilegia e fa sua la lettura “spirituale” dei fatti, pone l’attenzione sull'”oggi” di Dio e sostiene con maggiore forza il cammino dei fedeli perché “rinnovino” la loro adesione al Signore Gesù. Così privilegia la rilettura dei fatti della passione facendo propria la lettura del vangelo di Giovanni, il segno dell’Eucarestia posto nella “lavanda dei piedi” e nel racconto della cena; la lettura della passione come “vittoria dell’agnello”; la veglia pasquale come “cammino” in cui si accende la propria lampada al cero pasquale e si rinnovano le promesse del proprio Battesimo.
Assumere le differenze é un esercizio che dovremmo imparare a fare, riconoscendo i valori propri di ogni tradizione, almeno fino a quando non sarà consentito ad ogni comunità cristiana di scegliere come celebrare, nella fedeltà al Signore che ci é richiesta “oggi” e non semplicemente nello svolgimento esatto dei riti. Ogni “rito” ha una sua propria bellezza e verità, ma questa non può essere separata dal contesto liturgico: l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, con la benedizione degli ulivi del rito romano, a cui segue la lettura della passione non può essere inserito nella celebrazione ambrosiana delle palme; come la “lavanda dei piedi” (propria di Giovanni) non può essere inserita in un contesto “storico” (quello che é successo nella “cena pasquale”).
Aiutiamoci, allora, a comprendere le differenze e a custodirle; cercando, piuttosto, di recuperare la visione “spirituale” che la tradizione ambrosiana rischia di lasciare nell’ombra e di custodire invece la differenza “eucaristica”, come esercizio di “mancanza” (e di “non possesso”) che la tradizione romana rischia invece di nascondere.