3 – Il corpo mistico di Cristo
Essere una cosa sola con Dio
Dove il Bambino divino intenda condurci sulla terra è cosa che non sappiamo e a proposito della quale non dobbiamo fare domande prima del tempo. Una cosa sola sappiamo, e cioè che a quanti amano il Signore tutte le cose ridondano in bene. E inoltre che le vie, per le quali il Salvatore conduce, vanno al di là di questa terra.
O scambio mirabile! Il Creatore del genere umano ci conferisce, assumendo un corpo, la sua divinità. Per quest’opera mirabile il Redentore è infatti venuto nel mondo. Dio è diventato un figlio degli uomini, affinché gli uomini potessero diventare figli di Dio. Uno di noi aveva lacerato il legame della figliolanza divina, uno di noi doveva di nuovo riannodarlo e pagare per il peccato. Ma nessun discendente di questa progenie antica, malata e imbastardita, era in grado di farlo. Su di essa andava innestato un ramoscello nuovo, sano e nobile. Uno di noi egli è divenuto, anzi di più ancora, perché è divenuto una cosa sola con noi. Questa è infatti la cosa meravigliosa del genere umano, il fatto che siamo tutti una cosa sola. Se le cose stessero diversamente, se noi esistessimo liberi e indipendenti gli uni accanto agli altri come esseri singoli, autonomi e separati, la caduta dell’uno non si sarebbe tirata dietro la caduta di tutti gli altri. Dall’altra parte qualcuno avrebbe poi potuto pagare per noi il prezzo dell’espiazione e metterlo sul nostro conto, ma la sua giustizia non sarebbe trapassata nei peccatori e nessuna giustificazione sarebbe stata possibile. Egli invece venne per essere un corpo misterioso con noi. Egli il nostro capo, noi le sue membra. Se mettiamo le nostre mani nelle mani del Bambino divino e rispondiamo con un “sì” al suo “Seguimi”, allora siamo suoi, e libera è la via perché la sua vita divina possa riversarsi in noi.
Questo è l’inizio della vita divina in noi.
Essa non è ancora la contemplazione beata di Dio nella luce della gloria; è ancora l’oscurità della fede, però non è più di questo mondo ed è già un’esistenza nel regno di Dio. Il regno di Dio cominciò sulla terra quando la Vergine santissima pronunciò il suo fiat, ed ella ne fu la prima serva. E quanti prima e dopo la nascita del Bambino professarono la loro fede in lui con le parole e le azioni -san Giuseppe, santa Elisabetta, suo figlio e tutti coloro che circondavano la mangiatoia – entrarono similmente in esso. Tale regno sopravvenne in maniera diversa da come ce lo si era immaginato in base ai salmi e ai profeti. I romani rimasero i padroni del paese, e i sommi sacerdoti e gli scribi continuarono a tenere il popolo povero sotto il loro giogo. Chiunque apparteneva al Signore portava invisibilmente il regno di Dio in sé. Egli non si vide alleggerito dei pesi dell’esistenza terrena, anzi ne vide aggiungere degli altri; ma dentro era sorretto da una forza alata, che rendeva dolce il giogo e leggero il peso. Così avviene anche oggi per ogni figlio di Dio. La vita divina, che viene accesa nell’anima, è la luce che è venuta nelle tenebre, il miracolo della notte santa. Chi la porta in sé capisce quando se ne parla. Invece per gli altri tutto quel che possiamo dire al riguardo è solo un balbettio incomprensibile. Tutto il vangelo di Giovanni è un balbettio del genere a proposito della luce eterna, che è amore e vita. Dio in noi e noi in lui, questa è la nostra partecipazione al regno di Dio, che ha nell’incarnazione la sua base.
Essere una cosa sola in Dio
Essere una cosa sola con Dio: questa è la prima cosa. Ma una seconda ne segue immediatamente. Se nel corpo mistico Cristo è il capo e noi le membra, allora noi siamo membra gli uni degli altri e tutti insieme siamo una cosa sola in Dio, una vita divina. Se Dio è in noie se egli è amore, allora non possiamo che amare i fratelli. Per questo il nostro amore del prossimo è la misura del nostro amore di Dio. Ma si tratta di un amore diverso dall’amore naturale per gli uomini. L’amore naturale si dirige verso questo o verso quello, verso chi è a noi legato da vincoli di sangue, da affinità di carattere o da interessi comuni. Gli altri sono “estranei”, di essi “non ce ne importa alcunché”, anzi possiamo addirittura provare avversione nei loro riguardi a motivo della loro indole, per cui ci guardiamo bene dall’amarli. Per il cristiano non esiste alcun “estraneo”. Nostro “prossimo” è chi sta via via davanti a noi e ha più bisogno di noi, sia egli o meno nostro parente, ci “piaccia” o no, sia “moralmente degno” o meno del nostro aiuto. L’amore di Cristo non conosce confini, non viene mai meno, non si ritrae di fronte all’abiezione morale o fisica. Cristo è venuto per i peccatori e non per i giusti. E se il suo amore vive in noi, allora agiamo come lui e andiamo dietro alla pecorella smarrita.
L’amore naturale tende ad avere per sé la persona amata e a possederla nella maniera più indivisa possibile. Cristo è venuto per riportare al Padre l’umanità perduta; e chi ama col suo amore vuole gli uomini per Dio e non per sé. Questa è naturalmente nello stesso tempo la via più sicura per possederli eternamente; quando infatti abbiamo posto in salvo una persona in Dio, siamo con lei in Dio una cosa sola, mentre il desiderio di conquistarla conduce spesso -anzi prima o poi sempre – alla sua perdita. Ciò vale per l’altrui anima come per la propria e per ogni bene esteriore: chi si dedica alle cose esteriori per conquistarle e conservarle, le perde. Chi ne fa dono a Dio, le guadagna.
Sia fatta la tua volontà
Tocchiamo così un terzo segno della figliolanza divina. Essere una cosa sola con Dio era il primo. Il fatto che tutti sono una cosa sola in Dio il secondo. Il terzo: “Da questo riconoscerò che mi amate, se osserverete i miei comandamenti”. Essere figlio di Dio significa camminare dando la mano a Dio, fare la volontà di Dio e non la propria, riporre nelle sue mani ogni preoccupazione e speranza, non affannarsi più per sé e per il proprio futuro. Questa è la base della libertà e della gioia del figlio di Dio. Quanti poche anche di coloro che sono veramente pii, anche di coloro che hanno fatto eroicamente l’offerta di se stessi le posseggono! Essi camminano sempre chini sotto il grave peso delle loro preoccupazioni e dei loro doveri. Tutti conoscono la parabola degli uccelli del cielo e dei gigli del campo. Ma quando incontrano una persona che non possiede alcun bene, non ha alcuna pensione e alcuna assicurazione e tuttavia va incontro serena al suo futuro, scuotono il capo come se si trovassero di fronte a un tipo strano. Certo, chi si aspetta che il Padre celeste provvederà sempre al benessere e alle entrate che egli ritiene auspicabili, potrebbe sbagliarsi gravemente. La fiducia di Dio rimane incrollabile solo se essa include la disponibilità ad accogliere qualunque cosa dalla sua mano.
Dio solo infatti sa quel che è bene per noi.
E se un giorno per noi dovessero esser meglio la miseria e la privazione anziché un reddito sicuro, oppure l’insuccesso e l’umiliazione al posto dell’onore e del prestigio, dovremmo tenerci pronti anche a questo. Se lo facciamo, allora possiamo vivere il presente senza lasciarci turbare dal futuro.
Il “sia fatta la tua volontà”, in tutta la sua estensione, deve essere il criterio della vita cristiana. Esso deve scandire la giornata dal mattino alla sera, il corso dell’anno e tutta la vita. E deve quindi essere anche l’unica preoccupazione del cristiano. Tutte le altre il Signore le prende su di sé. L’unica che ci rimane è questa, fin quando viviamo. Oggettivamente parlando, noi non abbiamo la garanzia definitiva di rimanere sempre sulle vie di Dio. Come i primi uomini poterono perdere la figliolanza divina e allontanarsi da Dio, così ognuno di noi corre sempre sul filo tra il nulla e la pienezza della vita divina. E prima o poi lo sperimentiamo anche soggettivamente. Nell’età infantile della vita spirituale, quando abbiamo appena cominciato ad affidarci alla guida di Dio, sentiamo la sua mano forte e robusta che ci conduce; vediamo con estrema chiarezza quanto dobbiamo fare e tralasciare. Ma la situazione non rimane sempre così. Chi appartiene a Cristo deve vivere tutta la sua vita. Deve maturare fino all’età adulta di Cristo, imboccare un giorno la via della croce, dirigersi al Getsemani e al Golgota. E tutte le sofferenze che provengono dall’esterno sono un nulla a paragone della notte oscura dell’anima, allorché la luce divina non brilla più e la voce del Signore tace. Perché fa così? Siamo qui di fronte ai suoi misteri, misteri che non possiamo penetrare fino in fondo. Un po’ però li possiamo già per scrutare. Dio è divenuto uomo per farci di nuovo partecipare alla sua vita. Partecipazione che era al principio e che è l’ultimo fine.
Ma nell’intervallo c’è ancora qualcos’altro. Cristo è Dio e uomo, e chi vuol partecipare alla sua vita, deve prender parte alla sua vita divina e umana. La natura umana da lui assunta gli diede la possibilità di soffrire e morire. La natura divina, da lui posseduta dall’eternità, conferì alla sua passione e morte un valore infinito e la capacità di compiere la redenzione. La passione e la morte di Cristo continuano nel suo corpo mistico e in ognuna delle sue membra. Ogni uomo deve soffrire e morire. Ma se egli è un membro vivo del corpo di cristo, la sua sofferenza e la sua morte diventano, grazie alla divinità del capo, redentrici. Questo è il motivo oggettivo, per cui tutti i santi hanno aspirato a soffrire. Non si tratta di un desiderio malsano. Gli occhi della mente naturale lo vedono come una perversione. Ma alla luce del mistero della redenzione esso appare come estremamente ragionevole. E così colui che è unito a cristo persevera incrollabile anche nella notte oscura della lontananza soggettiva da Dio e dell’abbandono soggettivo da parte sua; forse la provvidenza divina gli impone questo tormento per liberare uno oggettivamente incatenato. Diciamo pertanto: “sia fatta la tua volontà!” anche e proprio, per questo, nella notte più oscura.