Lettere dal Kenya – 2
19 gennaio 1971 Wajir
… Sappiate rispondere con serenità a tutte le sofferenze, trepidazioni, dolori, ansie, amarezze. Dobbiamo assolutamente imparare a essere costantemente sereni, anche e soprattutto quando è più duro esserlo e perfino sorridere costa fatica. Dobbiamo, perché altrimenti siamo fuori della fede. O si crede o non si crede.
Non si può credere a metà. Non ha senso. E allora, se io credo, io so che Dio esiste e che lui mi ama, e allora io sono nella pace perché accetto tutto e comprendo che il suo amore è misterioso; io lo so e sono serena perché ho capito che nella mia vita non potrò mai raggiungerlo con la mia ragione, con la mia intelligenza.
… E’ proprio un po’ difficile riuscire a finire una lettera senza essere interrotta venti volte… almeno a scuola non ho ancora fatto niente. Gli studenti arrivano piano piano, trascinandosi pesanti casse, cassette, valigie nella sabbia: soli o a piccoli gruppi; altri sfracassano sulla cima di pesanti camion sferragliati… Chissà perché sono così lenti ad arrivare il primo trimestre. E’ vero che vengono da ogni parte di questa sconfinata provincia del nord-est, che ci mettono anche due o tre giorni per arrivare, ma è anche vero che potrebbero mettersi in movimento per tempo… ma loro dicono che non hanno denaro per pagare le tasse, che debbono rimanere a casa a cercarlo… come è strana e lenta e pazientissima e fatalista e abulica e spenta questa vita. I miei studenti rispondono con lenti dolci sorrisi ai miei sorrisi, ma quanta rassegnazione in fondo ai loro sguardi, che dolorosa assenza di vampate di entusiasmo, di ardori giovanili, di occhi brillanti di incantata speranza… Quando la vita è così aspra, dura, faticosa, forse non si può essere diversi e forse è vero che l’unico desiderio, la sola ansia, l’ultima speranza è quella di andarsene, di fuggire lontano, di lasciarsi alle spalle questo inferno, di dimenticarlo. Ne ho già avuto piccole conferme. I nostri amici arabi di Nairobi lasciarono Wajir dieci anni fa; la maggioranza non sono mai tornati quassù a trovare i loro parenti, a cui pure sono legatissimi… e dire che i loro autisti e i loro camion hanno continuato a fare la spola fra Nairobi e Wajir con una media di un safari ogni quindici giorni in questi lunghi dieci anni. Quelli che sono tornati fuggevolmente lo hanno fatto soltanto perché costretti da ragioni finanziarie. Affari e nient’altro… A parte le donne, che seguono le rigide tradizioni familiari, vengono quassù a partorire in famiglia, nonostante gli evidenti pericoli legati al lungo viaggio su piste disagevoli quando ormai sono alla fine della gravidanza, al cambiamento di clima e di altitudine, all’acqua salata (nessuna casa del villaggio, neppure quelle dei ricchi, ha il serbatoio dell’acqua piovana), all’assenza delle necessarie condizioni igieniche… non che questi arabi diano peso a problemi del genere. In queste famiglie, anche nelle più ricche ed evolute, i bambini continuano a morire e le donne a soffrire, ad ammalarsi anche gravemente fino a morire senza che nessuno, dico nessuno, si dia da fare per portarli all’ospedale o per chiamare un medico o un infermiere qualsiasi in casa o anche solo per procurarsi qualche medicina. Anche ieri siamo state a trovare una delle nostre “case” arabe e abbiamo dolorosamente scoperto che Miriam, una delle mamme con quattro bambini è morta dopo due mesi di sofferenze e di letto in cui gli altri l’hanno lasciata spegnersi lentamente senza fare nulla.
… Tu lo sai che noi dobbiamo dare loro [gli studenti] il pane di vita: la consapevolezza cioè che loro sono padroni del loro destino, amministratori del loro futuro, liberi nelle loro scelte, responsabili delle loro decisioni, forti di quella dignità che è propria dell’uomo in quanto uomo, chiamati per vocazione umana alla fratellanza universale, ad aprirsi, a spalancarsi sul mondo e al mondo; noi dobbiamo lottare con tutte le nostre forze, spenderci fino in fondo per far vibrare e palpitare e vivere costantemente e fortemente in loro l’urgenza dell’onestà, della sincerità, della chiarezza con se stessi, perché è di qui che dipende tutto: se io imparo ad essere sincera con me stessa, a guardarmi con occhi limpidi e mente lucida, se io imparo ad “amare” l’onestà con me stessa, io sono dalla parte del sicuro e con me lo sono tutti quelli che in un modo o nell’altro avranno a che fare con me durante la mia vita.
13 febbraio 1971 Wajir
… All’ospedale le mamme dei piccini scheletrici che nutro mi tendono un enorme tazzone: “Mtoto kidogo! Mtoto kidogo!” (per il bambino piccolo) poi, appena volto l’occhio, divorano il cibo… mentre i bambini piangono disperati… per quel cibo che loro non assaggeranno neppure… e intanto un’ira sorda mi cresce dentro fino a furoreggiare contro quelle madri snaturate… ma so che sbaglio: è la fame. Loro non ne hanno colpa. Ma nonostante tutto questo non ho fatto nulla, non ho chiesto niente… qui gli aiuti che sono arrivati agli inizi non sono andati, se non in minima parte, ai realmente bisognosi… qui tutto finisce nelle tasche e nelle pance di quelli che dovrebbero distribuire, dei “fortunati” che dovrebbero sapere cosa vuol dire avere fame e avere sete, perché anche loro ne hanno avuto esperienza nel passato.
Vorrei dirvi tante cose, ma ora non posso e non so neppure quando potrò, perché questa mia vita quaggiù non solo la vivo, ma la brucio, ed oggi non so quello che sarà domani.